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mercoledì 24 marzo 2010

UN COMPLEANNO DA PICASSO



Compie 26 anni il tennista teutonico. Talento tennistico in perenne bilico tra il quadro d'autore e la straziante resa mentale. Tra la vittoria del 2008 a Vienna, qualche fiammata e tante eclissi.
Un ragazzino strano, scattante, con una gran sensibilità di braccio e velocità d'esecuzione. Spalle strette, gambe storte ed espressione spaventosamente inquietante, mentre cammina a piccoli passetti. Rimanda all'idea di un pasticcio irregolare ed inspiegabile. Ma se uno con quella mano non ha una carriera da top, c'è il rischio di mandare a farsi benedire ogni banale convinzione che ci si è costruiti sul tennis. E invece gli esordi non sono facili. I tecnici che ne avevano intravvisto i chiari segni di un talento fuori dal comune, iniziano a porsi delle domande e consultare i libri di psicologia. Instabilità mentale, incapacità di soffrire e faticare, ingabbiano le velleità del teenager tedesco. Il talento non s'allena mica, del resto. E questa la frase che deve circolare nel cranio del giovane Philipp. Ma quando non sei McEnroe, nel muscolare tennis moderno, senza allenamento non vai da nessuna parte. Se davvero il tennis è "fisico e mente", Petzschner ha un futuro assicurato nella scherma o nel rubamazzetto. Si frantuma un ginocchio, e appare la surreale fine di una carriera mai iniziata. Ma è forse lì che il ragazzo tedesco prende la decisione di volerci provare sul serio.
Una magnifica ed incompiuta tela d'autore. Decide di rimettersi in sesto, ritorna, vince qualche partita nei challenger. La sua sagoma saettante, da anacronistica macchietta buffa, regala una prestazione da virtuoso esaltato, contro un Tommy Haas al vertice, negli Us Open 2007. "Picasso", come ormai lo chiamano, perde in quattro set, raccatta i soliti complimenti dell'avversario e stucchevoli ritornelli: "meriterebbe di stare molto più avanti in classifica". Lui ha lo sguardo di uno a cui non interessa minimamente quello che succede nel pianeta terra, che suo malgrado, lo ospita. Possiede l'intima consapevolezza di essere una spanna sopra gli altri. Che poi lo dimostri su un campo da tennis o mangiando un hotdog coi crauti, non è faccenda rilevante, per lui. Ritorna nel limbo dei tanti dimenticati, una fatua fiammata sui prati di Wimbledon, dove porta il croato Ancic al quinto set, prima d'eclissarsi, perdere e raccogliere i soliti complimenti fini a se stessi. Sembra davvero non esserci spazio nel tennis moderno, per quel ragazzo ritorto e irregolare, nel fisico e nella testa. Un quadro di Picasso che cammina, dipingendo parabole imprevedibili sul campo. Buon servizio, rovescio giocato quasi esclusivamente in backspin. Una lama morbida e compulsiva, con cui taglia il rettangolo in tante listarelle che paiono danzare folli, prima di partire con la saetta di dritto nell'angolo opposto. Merletti ricercati, intrisi di arsenico letale. Ricami geniali e fulmini abbaglianti di dritto che non fai nemmeno in tempo a veder partire. Quando partono.
Danzando su deliranti sinfonie Viennesi. Nel 2008, a Vienna, terra di musicisti pazzi e geniali, sordi e svitati, emerge lui, il Picasso con la racchetta. Trova una settimana d'ispirazione schizoide. Tutto di nero, orrendamente concentrato, miete vittime illustri, a suon di estenuanti ghirigori. Cadono come foglie sotto le sue zampate lunari, Moya, Feliciano Lopez e Monfils in finale. Vince il torneo, partendo dalle qualificazioni. Come a dimostrare ai miscredenti, che se vuole può essere un tennista, e non soltanto un ricercato apprendista venditore di lampadine fulminate. A quella cavalcata sinfonica, seguono mesi di alti e bassi. Sempre a costeggiare quel labile confine tra l'artista raffinato e un miserabile imbianchino sciancato. Tra una preziosa tela e l'orrendo schizzo inguardabile. Un delizioso ricamo ed una palla sgozzata atrocemente a metà rete, come scempio gettato via con incurante disprezzo di se stesso. La scorsa estate raggiunge il suo best ranking Atp (numero 35), facendo fuori gente del calibro di Querrey, Fish, Robredo. Agli US Open, domina Ferrero per due set e mezzo. Poi si congeda da se stesso e cede al quinto, come vittima di una follia placida e rassegnata.
Bagliori assordanti. Picasso è quello. Nitida ed abbagliante essenza di un nulla ricercato. Si prende o si getta via. Un dritto segue Nadal o Federer, mica quell'affare buffo, che si ostina a camminare sul filo che separa capolavoro ed abomino, danzando come un equilibrista sbronzo. Bellezza e orrore si fondono in modo indissolubile. Imprevedibile nella sua prevedibilità suicida. Potrebbe sfinire a suon di rovesci in back e saette radenti Djokovic, o perdere contro una settantenne sferruzzante uncinettarice. Dieci minuti da virgulto della racchetta, e un'ora di assoluta, abulica ed inutile presenza fisica. In fondo basterebbe aumentare la soglia di attenzione mentale. Ma quella, ci sono eminenti studi a testimoniarlo, non può durare oltre qualche minuto, e Picasso non sfugge a questa regola. Sarà mica uno sportivo lui. La mente che dirige il braccio, si spegne dopo poco. E non resta che guardaro vagare nel campo, come nel mezzo di una gitarella nel bosco, intento a cogliere olezzose violette e fiori di lillà. Un mimo surreale, con speventosi sorrisetti e movenze irreali, che prova vanamente a scorgere la sua ombra nello specchio.
Scruti quella bella espressione fissa, da reclutazione immediata in un centro d'igiene mentale, e pensi che avrà una guerra atomica in testa o un concerto di hippies strafatti. La soluzione a tutti i mali del mondo, o il nulla più assoluto. Potrebbe comporre una immortale opera sinfonica, dipingere un quadro d'autore. Oppure mangiarsi un panino con la mortadella. E in fondo, è quello il bello. La consapevolezza che non lotterà mai per vincere uno slam con "quelli là", venata dall'intima speranza che avvenga qualcosa di imprevedibile. E quell'attesa irrazionale che corre a braccetto con l'utopia, lo rende piacevole. Forse vincerà Flushing Meadows, nell'edizione 2013 che si giocherà su Marte, opposto a Gasquet, con un casco quadrato a cingergli le meningi. Per il resto ci sono Federer, Nadal, Murray...

Scritto per Tennis.it

3 commenti:

  1. troppo vecchio, credo, a 26 anni per scoprirsi "campione". Il team, l'allenatore, credo, non l'abbiano aiutato. Chissà chi è, mò m'informo.
    Ciao!!

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  2. Tale Lars Uebel, tennista di Challenger di 29 anni, praticamente si allena col vicino di casa...

    http://www.atpworldtour.com/Tennis/Players/Ue/L/Lars-Uebel.aspx

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  3. Ciao Bruno,
    ma sarebbe follia pensarlo tra i promi venti, figuriamoci "campione". Va bene così com'è, mi ripeto "nitida ed abbaglianza essenza di un nulla ricercato 8e divertente).". Il segreto è non aspettarsi nulla.
    Non credo proprio sia un problema di allenatore. In campo fa quello che gli dicono i criceti stipati nel cervello. Basta provare a vedere la sua espressione sulle tribune. Ha tutta la mia umana comprensione.
    Ciao, a presto.

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Dissi io stesso, una volta, commentando una volè di McEnroe: "Se fossi un po' più gay, da una carezza simile mi farei sedurre". Simile affermazione non giovò certo alla mia fama di sciupafemmine, ma pare ovvio che mai avrei reagito con simile paradosso a un dirittaccio di Borg o di Lendl. Gianni Clerici.