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lunedì 19 marzo 2018

IN MEMORY OF JANA NOVOTNA



Questa è la storia di una splendida tennista senza ambizioni, divorata dalla paura, che imparò ad avere un sogno.
Lo spelacchiato prato del centrale quel pomeriggio di luglio sembrava fatto per lei, esangue donnone dell'est dai tratti del viso austeri. Pallido sole sul suo volto terreo e zazzera bionda sospinta a rete da un refolo impercettibile. La ricordo perfettamente quella finale. Non era facile per Jana Novotna, venticinquenne ceca dal gradevole tennis d'attacco, scardinare Steffi la cannibale Graf, da anni feroce dominatrice delle scene. Eppure tiene botta, con l'unica tattica possibile. Attaccare, confondere i meccanici colpi a rimbalzo della tedesca. 

Il primo set è equilibrato, Giovanna si trascina al tie-break ma, come spesso le accade, zavorrata dall'emozione, cede sul più bello. Il film della finale sembra avere un esito scontato, in discesa per la favorita e con la consueta, inutilmente onorevole, resa della sfidante dell'est. Storia già vista. Un paio d'anni prima la ceca volleante aveva già mancato una finale, crollando alla distanza sotto i quadrumani colpi dell'urlante criceto serbo, Monica Seles.

Accade poi qualcosa di inatteso a scompaginare la banale sceneggiatura. Jana inizia a colpire libera, senza pressione. E senza quel divorante pensiero di dover vincere, diviene inarrestabile. Gioca benissimo al tennis. È perfetta per i prati. Qualsiasi sua foto è la plastica immagine in movimento della ricerca della rete, perennemente protesa in avanti, nel classico serve&volley, arte che già cominciava ad essere minoranza nella lenta trasformazione bruta subita da questo sport e di cui Steffi belle gambe pare essere trait d'union perfetto. 
Ora abbranca la rete quasi come una Martina destra, servizi a cercare compulsivamente e (solo all'apparenza di uno sprovveduto ragazzotto che iniziava a tirar inutili colpi al circolo) incomprensibilmente, sul letale dritto della Graf. La tedesca, micidiale nell'infierire spiattellandolo quasi dall'alto in basso, arrancava nel prepararlo in ribattuta o per contrastare uno slice basso. Specie su erba. Tutt'altro che una tennista da prati, Steffi, ma talmente superiore a tutte, da dominare anche lì. 
E vola Jana, martella forte sul dritto decapitato e chiude spumeggianti volée sull'inesistente rovescio della tedesca che, incapace di tirarlo coperto, prova anche tragicomici passanti in back. La sventurata, allibita, perde il tradizionale aplombe di Germania lasciandosi andare in smoccoli mai visti. 
La sfidante ceca domina il secondo set per 6/1, inizia anche il terzo con la stessa ispirazione tzigana. Scappa, avanti di break, poi di due. 

Mamma mia come gioca questa ceca smunta, quando ha la mente sgombra da pavide nuvolaglie. Serve sul 4-1, palla per il 5-1, servono solo cinque miserabili punti per il trionfo. Non è più questione di tennis, quello lo ha, lo avrà sempre. Serve solo l'istinto omicida, la predatrice che sentendo l'odore del sangue si esalta sempre di più e azzana la preda alla giugulare. Lei, invece, alla vista del sangue, sviene. Jana è pallida, divorata dalla tensione carogna: doppio fallo che è doloroso preludio di una delle più crudeli sconfitte mai viste. Sempre più terrea, avverte il fiato della resuscitata cannibale sul collo. Ha ancora un break di vantaggio, ma sul 4/3 piazza tre doppi falli in serie col braccio che ormai si ritrae. Vorrebbe non averlo quel braccio, non avere le gambe, la testa. Non essere più lì, sparire. "Sei troppo buona Jana", si sarà sentita ripetere da ragazzina. Ed è la cattiveria a distinguere una campionessa da una che gioca benissimo. Sono minuti tremendi, Novotna trattiene a stento le lacrime mentre cede il quinto gioco consecutivo a Steffi che alza, ancora una volta, le braccia al cielo.
Il resto, quello che accade durante la premiazione, è storia. Jana, in barba a cerimoniali e cazzate di plexiglass, scoppia in lacrime sulla spalla della Duchessa di Kent che, fottendosene anche lei a finti protocolli regali, la consola amichevolmente, un filo imbarazzata.

Rimarrà dunque una incompiuta, Jana Novotna, pensa l'imberbe spettatore. Vince quasi più slam lei di Steffi. Ma sono doppi però, dove fa valere le sue doti di attaccante. In singolo resta al vertice, arriverà al numero due al mondo, trionfa in altri 24 tornei, ma mai dello slam. Una storia che pare avere un epilogo scontato. Del resto è una ragazza dell'est con pochi sogni e nessuna ambizione, lo ha candidamente ammesso. O forse, un sogno adesso ce l'ha, anche se non lo dice: tornate sull'erba di Wimbledon e prendersi quel piatto maledetto. 
L'occasione si ripropone, quasi inattesa, quattro anni dopo. In finale impartisce una severa lazione alla bambina Hingis nel primo set, prima del proverbiale tracollo e terza finale slam ceduta in lotta. Marchio di fabbrica. Perché non puoi cambiare la storia, il destino di una loser, perdente nel midollo. Quasi, mai. Nessuno ormai si aspetta nulla dalla trentenne Jana nel 1998 e, proprio in quei casi, torna libera e si ricorda di avere un sogno: il piatto maledetto e le lacrime, stavolta di gioia, con la complice Duchessa: si prende la rivincita con Hingis in semifinale e nell'atto conclusivo regola la francese Tauziat. 
Perché questa era la storia di una splendida tennista senza ambizioni, divorata dalla paura, che imparò ad avere un sogno.


6 commenti:

  1. Ciao Picasso. Meraviglioso. Non oso dir altro.

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  2. Bellissimo pezzo, grazie per avermi fatto ricordare una grande tennsista

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  3. Splendido pezzo in memoria di una splendida giocatrice autrice, ad ex aequo con Goran Ivanisevic, della più bella fiaba narrata dai sacri prati londinesi. L'abbraccio con Hana Mandlikova fu davvero commovente

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    1. Grazie, sì concordo. Grandiosa storia anche quella di Ivanisevic. La finale con Rafter una delle più belle (emotivamente) mai viste.

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Dissi io stesso, una volta, commentando una volè di McEnroe: "Se fossi un po' più gay, da una carezza simile mi farei sedurre". Simile affermazione non giovò certo alla mia fama di sciupafemmine, ma pare ovvio che mai avrei reagito con simile paradosso a un dirittaccio di Borg o di Lendl. Gianni Clerici.